VOCE
ROVIGO
24.01.2019 - 20:14
Questa non è la triste trama di un film. Non è cinema. E’ la dura, durissima realtà che stanno vivendo Daniele Zago, ex titolare della gelateria “La Fontana” di piazza Merlin, e da ieri anche il figlio Nicola, 24 anni, che gli è venuto a fare compagnia dentro il chiosco, l’unica cosa che gli è rimasta, insieme a un registratore di cassa, uno stereo, qualche tazzina di caffé e alcuni bicchieri ancora stipati sopra il bancone.
Dallo scorso dicembre, da quando la mamma è venuta a mancare e ha dovuto lasciare la casa Ater di Cavarzere, Daniele dorme dentro il chiosco, la vergogna della piazza.
La sua vita è finita in un precipizio da giugno scorso, da quando gli uffici del Patrimonio gli hanno notificato che “scaduta la concessione ventennale doveva ripristinare i luoghi come erano stati consegnati”.
Da allora le ha provate tutte: la ribellione, la rabbia, il tentativo di vendere la struttura, i tazebao contro alcuni amministratori comunali che lo avrebbero rovinato. Poi ha smesso: ha girato i manifesti verso il lato bianco, ha tappezzato le vetrine per non essere guardato dalla gente, si è infilato dentro il suo chiosco per riscaldarsi la notte, visto che una casa non ce l’ha più e nemmeno una residenza e vorrebbe scomparire per strada.
“Mi vergogno, mi vergogno di ricevere il pane dai miei ex colleghi, la pizza da quello che prima era il mio vicino di ‘bottega’, i dieci euro da chi mi incontra per strada - dice disperato il sessantenne - Vado a mangiare da don Silvio Baccaro, che mi sta dando una grande mano. Ma solo un pasto, perché non voglio pesare su di lui. Lì c’è gente disperata, c’è la povertà vera”.
Gli obiettivi e le prospettive di Daniele in questi 221 giorni di scelte insensate, degrado e abbandono sono cambiati al ribasso.
E una settimana fa l’ex imprenditore ha bussato alla porta del sindaco Massimo Bergamin per chiedere la residenza a Rovigo. “Solo così posso entrare in graduatoria per una casa, per un sussidio, per ricominciare da qualcosa. Ma anche qui stanno facendo problemi”.
Dietro il bancone due lettini improvvisati e una stufetta “che spengo per non saturare l’aria di monossido di carbonio”, spiega. Nell’area che prima era piena di tavolini, due bombole a gas, un standino con gli abiti appesi. E un freddo dentro quel chiosco che non è solo fisico, ti entra nell’anima e ti fa tremare, di dolore e di impotenza.
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