VOCE
L’INCHIESTA
04.03.2019 - 21:58
Valentina Borella con i "suoi" bambini
Autrice del libro “Avrei voluto lo zucchero filato”, sogna una vita più autonoma per i disabili
Valentina Borella, 37 anni di Rovigo, è educatore professionale e pedagogista clinico. Lavora da anni nell’educazione e nella riabilitazione, ma nel libro “Avrei voluto lo zucchero filato” (ed. Kimerik) racconta lo choc di aver ricevuto, come mamma, una diagnosi di disturbo dello spettro autistico. Nonostante nel libro racconti tante emozioni, anche forti, come la rabbia, la sorpresa del gesto che da suo figlio aspettava, la parola “mamma” che non arrivava, non è stato facile per lei accettare l’intervista della “Voce di Rovigo”.
“Non è semplice parlare dello spettro autistico da terapista e da mamma - spiega - ho accettato, per quel profondo desiderio di regalare a mio figlio un mondo che sia accogliente delle diversità e inclusivo consapevolmente. Io e lui siamo stati fortunati ad incontrarci, rimane il desiderio di dare un senso a questa esperienza. L’ho fatto per i ‘miei’ bambini e i ‘miei’ ragazzi, l’ho fatto per loro, perché glielo devo, i loro sguardi e i loro abbracci sono la mia ricompensa ogni santo giorno, chiudo sempre il bilancio in debito con loro”.
Nel libro cosa racconta?
“Racconto un tratto di strada di una donna piena di sogni che si trova a fare i conti con qualcosa di inaspettato e imprevedibile, come solo una diagnosi sa essere. Racconto i sentimenti miei, di madre, tolti tutti i titoli accademici. L’ho fatto non senza fatica, dubbi, pianti, timori di fronte al contratto con la casa editrice, in fondo mi stavo esponendo al mondo a nervi scoperti. Ho deciso di provare a fidarmi del vento che sentivo soffiare in quel momento. Di fronte a una diagnosi hai tutto il diritto di desiderare lo zucchero filato, e tutto il dovere di non mollare”.
Quali sono le più grandi paure per un genitore?
“Accolgo le confidenze dei genitori ogni giorno, le accolgo con il rispetto che meritano, anche se ci sono passata non posso sapere cosa prova un’altra persona. Quello che sicuramente ci lega è che di fronte allo ‘spettro’ hai paura, sempre, paura di perdere. Sei in uno stato di allerta, alla continua ricerca di uno sguardo, di un gesto, di un suono, di un’autonomia. Se non sei in allerta, potresti esserne in balia, diventare un satellite di un pianeta che per infiniti motivi fai fatica a raggiungere, a tenere con te. Ti senti sfuggire dalle mani qualcosa che sai che ti appartiene. Le sensazioni sono assolutamente personali, lo ‘spettro’ richiede impegno, costanza, presenza, energia, ma quando arriva la diagnosi, vai al tappeto. Ti rialzi dopo, con un tempo non prestabilito, il tuo tempo, ma devi alzarti”.
Come ha superato i momenti di maggiore sconforto?
“Non lo so se li ho superati, mi hanno aiutata sicuramente, i terapisti e le insegnanti di mio figlio. Lo ‘spettro’ porta nella tua vita, una buona dose di paura, a volte rischi di non riuscire nemmeno a vedere bene le cose per come stanno. I terapisti di mio figlio mi hanno sempre aiutata a focalizzare la strada e fare il passo successivo. Non è stato semplice per nessuno, sono una terapista, scaraventata dall’altro lato del “mondo”, così senza preavviso per nessuno. Mi sono sentita spesso una mamma inadeguata, incapace di fare le cose più semplici e stanca, fisicamente, mentalmente. Mi sono addossata colpe che ho capito con il tempo che non potevo avere, mi sono fatta aiutare, questo è stato il modo per rialzarmi. Mi sono presa cura di me stessa e del mio dolore. Non puoi aiutare le persone se non sai avere cura di te. E tuo figlio è una persona, con esigenze specifiche ma tu devi esserci”.
L'intervista completa sulla Voce di Rovigo di oggi, 5 febbraio 2019
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