VOCE
IL PROCESSO
21.02.2020 - 23:20
La Procura chiede 13 condanne e due assoluzioni per la “ruspa blindata” dei Venetisti
E’ l’unico filone superstite di una maxi inchiesta che, in origine, riteneva di avere gettato luce su un gruppo di secessionisti veneti, con alcuni lombardi, disposti addirittura all’eversione e alla lotta armata, per vedere raggiunta l’indipendenza del Veneto e della Lombardia Orientale.
I carabinieri del Ros e la Procura di Brescia indagarono su un gruppo noto come “Alleanza”, che avrebbe avuto, appunto, queste finalità eversive. Una tesi che è uscita smontata dall’udienza preliminare, che ha visto il proscioglimento di massa di tutti gli indagati.
Ora, rimane solo il caso del “Tanko”, ossia la ruspa blindata e dotata, secondo l’accusa, di un cannoncino artigianale, sequestrata dalla polizia giudiziaria in un capannone di Casale Di Scodosia, nell’aprile del 2014. In provincia di Padova, ma sotto la competenza del Tribunale di Rovigo. Da qui il radicamento del processo nel tribunale cittadino.
Ieri, la discussione del pubblico ministero. Sabrina Duò, che ha domandato la condanna di 13 dei 15 imputati, accusati a vario titolo di avere preso parte alla blindatura della ruspa e della sua dotazione con un cannoncino di fattura artigianale. Due, invece, le richieste di assoluzione.
Tre richieste di condanna sono stata formulate a 5 anni, le restanti a 3 anni e 6 mesi. Tra gli imputati di questa seconda fascia, anche un polesano, di Arquà, che avrebbe eseguito alcune saldature sul blindato.
Ad avviso dell’accusa, i venetisti erano davvero pronti allo scontro armato, tanto da avere predisposto anche appositi kit di sopravvivenza, nei quali non mancavano, tra acciarini per accendere il fuoco, torce e razioni d’emergenza, riserve di grappa.
In quest’ottica, il tanko sarebbe nato come un’arma, non come un “carrozzone allegorico” come lo dipingono gli imputati. Lento, certo, ma blindato, addirittura con il progetto di “sistemi di sopravvivenza” per resistere a un eventuale incendio, da mettere in conto in battaglia, per quanto artigianali, particolarmente adatto agli scontri urbani.
Il tutto, nonostante una perizia non univoca, da parte degli esperti incaricati dal Collegio giudicante. Avevano parlato, nel corso della loro deposizione, di un’arma in grado di fare fuoco, per quanto non a ripetizione, dal potere paragonabile a quello di un fucile da caccia di grosso calibro, ma non si erano sbilanciati più che tanto sulla classificazione come “arma da guerra”, ossia il reato contestato dall’accusa. Ora, si torna in aula il prossimo 17 marzo, quando dovrebbero terminare le arringhe delle difese. Non è escluso che, in quella stessa occasione, si possa andare anche a discussione e a sentenza.
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