VOCE
La storia
22.11.2020 - 23:43
“Non ho nessuna voglia di fare polemica, ma questa la voglio raccontare...”. A parlare è un’amica infermiera che lavora nel settore emergenza di uno degli ospedali polesani. Ha chiesto di non mettere il nome (“perché in giro si leggono un sacco di cose brutte successe a dei colleghi”) e di non renderla riconoscibile. Se avesse fatto una denuncia è evidente che non sarebbe stato possibile, ma non è di questo che vuole parlare. Anzi.
“In ospedale e con i servizi sanitari in genere va tutto bene. Certo, è una fatica bestiale, i turni sono quelli che sono, e si arriva alla fine del turno che non vedi l’ora di tornare a casa. Ma negli ultimi mesi problemi ad esempio con le mascherine e tutti i dispositivi di protezione non ce ne sono più. E anche noi sappiamo meglio come muoverci. Perché al rischio sul lavoro ci si può anche abituare (e noi ci stiamo difendendo al meglio), alla sofferenza che vedi negli occhi delle persone invece è molto più difficile... Ho visto entrare in ospedale almeno due persone che conoscevo bene, una l’ho anche salutata. Sono entrate con le loro gambe e dopo un po’ di giorni ho saputo che erano morte in terapia intensiva. E in terapia intensiva si muore da soli, senza nessuno vicino... Come si fa a non avere paura? E’ umano. Anzi, è un bene avere paura, anche e soprattutto fuori perché così si evitano errori pericolosi”.
C’è però qualcosa che l’amica infermiera proprio non riesce a digerire. Ed è il motivo del suo sfogo.
“In primavera ci chiamavano eroi; ci portavano anche le paste per fare colazione in ospedale o al termine del turno in ambulanza. Adesso in giro vedo invece tanta cattiveria. Una cattiveria inspiegabile. E questa storia la voglio raccontare perché ho letto sui social che cose simili, spesso molto peggiori, stanno succedendo anche altrove”.
“Un esempio? Ogni tanto con i colleghi e le colleghe, a volta anche con qualche medico, prima di iniziare il turno ci fermavamo in un bar qui vicino a prendere il caffè. Erano sempre tutti molto gentili nei nostri confronti. Adesso invece è cambiato qualcosa. Le ultime volte che siamo andate si è sentito un gelo attorno a noi. La gente si ritraeva, come se fossimo degli untori e anche il padrone del locale ci ha fatto il caffè di malavoglia e in fretta. Come a dire: meglio se non venite più... Capite? Facciamo paura. Noi? Noi che lavoriamo dove altri non metterebbero mai piede? Noi che rischiamo di nostro, e per lo stipendio che sapete, trasportando ammalati contagiosi? Ma non è solo questo il caso. Singolarmente a molte di noi, soprattutto donne, è capitato che ci hanno fatto capire che se non andavamo più in certi negozi era meglio... Si sente a pelle quando scende il gelo”.
“Una volta - prosegue come un fiume in piena - l’ho fatto notare in un commento su Facebook. Non l’avessi mai fatto. Sono stata sommersa di insulti. I più buoni dicevano che è il lavoro che mi sono scelta e che non devo lamentarmi... Ci mancherebbe. Il mio lavoro è il mio lavoro. E’ vero, l’ho scelto io e sarei potuta andare a fare altro. O chiedere di lavorare in reparti meno pericolosi. Ma la vuoi sapere una cosa? Io non mi tiro indietro. Certo, ci sono atteggiamenti che disturbano, ma penso che siano dettati dall’ignoranza prima ancora che dalla paura. L’ignoranza è quella che fa danni enormi tutt’intorno, quasi peggio del virus. Vorrei vederli, questi che non ci vogliono fra le scatole passare una giornata in corsia. O a bordo di un’ambulanza... Sì, mi piacerebbe proprio... Perlomeno adesso non ci chiamano più ‘i nostri eroi’ e non ci portano da mangiare in ospedale. Non tutti, però. Perché chi ha un po’ di cuore si vede quando gli altri ti voltano le spalle. Anche se proprio non riesco a capire perché...”.
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