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LA PROPOSTA
14.02.2022 - 09:19
Un’Italia sempre più vecchia e sempre più chiusa al cambiamento. A pesare sul crollo demografico, secondo il sociologo Domenico De Masi, è l’incapacità di guardare in maniera più ampia a quello che accade nel mondo ma soprattutto di accettare di cambiare una mentalità obsoleta e legata al passato.
Si parla molto in questo giorni del crollo demografico del territorio italiano, soprattutto dettato dalla mancanza di nascite, secondo lei che cosa sta succedendo?
“Fra 10 anni l’Italia avrà un milione e mezzo di cittadini in meno, mentre il mondo intero vedrà la presenza di circa un miliardo di persone in più. Il fenomeno demografico, quindi, se osservato dal punto di vista prettamente italiano, senza fare un rapporto con la situazione mondiale, si può considerare grave. Il fattore su cui riflettere veramente è invece che a livello mondiale i giovani esisteranno, anzi l’unico eventuale allarme è l’eccesso di nascite”.
Qualcuno imputa il calo ad una mancanza di posti di lavoro, perché il fattore lavorativo continua ad essere un problema?
“Partiamo dal fatto che continuiamo a considerare vecchi i 65enni. Un tempo, infatti, le persone di questa età erano considerate ‘vicino alla morte’. Nel 1919, quando fu stabilita la pensione il parametro per rientrare era di 60 anni per gli uomini e di 55 per le donne. All’epoca, però, si moriva in media a 48 anni. Così facendo Inps aveva incassato i soldi del lavoratore, che non raggiungeva l’età pensionistica e ci aveva guadagnato, oggi la fascia di età è stata innalzata ai 60 anni per le donne e 65 per gli uomini, ma la vita galoppa a circa 87 anni. Il 60enne di oggi ha ancora almeno 30 anni di vita davanti sicuri, mentre il 60enne di cento anni fa era un sopravvissuto. Il concetto di lavoratore andrebbe completamente rivisto”.
Come andrebbe rivisto secondo lei?
“I lavoratori non mancano ma chi entra nel mondo del lavoro lo fa sempre più tardi. Di contro usciamo dal mondo del lavoro più o meno all’età di prima, credo quindi che l’ideale sarebbe lavorare meno ma facendolo per più anni”.
Quindi non è l’età pensionabile, sempre più avanzata, la responsabile della carenza di lavoro?
“Un tempo i lavoratori erano soprattutto operai, circa il 90%; ora sono il 33% e nel 2030 saranno il 15%. Attualmente ci sono soprattutto manager, professionisti ed impiegati. Se guardiamo al mondo del lavoro estero, come ad esempio in Germania, tutti i lavoratori, indipendentemente dal ruolo, escono alle 17. Che sia la fabbrica o l’ufficio. In Italia gli impiegati hanno il vezzo di restare di più in ufficio, ore di straordinario non retribuito. Questo toglie lavoro a centinaia di migliaia di giovani. Questo fenomeno coinvolge soprattutto gli uomini. Riducendo le ore di lavoro avremmo a disposizione 6 milioni di posti in più. Una necessità ancora più impellente, dato che nel Recovery plan 58 miliardi saranno dedicati alla digitalizzazione”.
Alcuni Comuni polesani lamentano la fuga di immigrati che si erano integrati con il territorio e che, spostandosi, hanno impattato pesantemente sul dato demografico.
“Questo fenomeno conferma che gli immigrati rappresentano una risorsa, se inseriti in percorsi di integrazione che permettano loro di trovare lavoro e stabilizzarsi. Se decidono di andare via è perché gli altri stati hanno capito la loro importanza e hanno dato spazio a riforme che li aiutino. Qui non si sono mai create. E’ normale che decidano di andare via. E’ la nostra stessa mentalità a penalizzarci”.
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