VOCE
LA SENTENZA
28.06.2022 - 10:27
Sono state pubblicate le motivazioni della sentenza n. 833/2022 della Corte d'Appello di Venezia (presidente Dr. Giuliano, estensore Dr.ssa Cavaggion), relativa al primo processo Coimpo, incentrato sulle quattro morti sul lavoro avvenute nell'impianto di trattamento dei fanghi a Cà Emo di Adria.
"Condanne confermate per tutti gli imputati anche se con pene ridotte in appello, per il semplice dato di fatto dell’intervenuta prescrizione, per una serie di contravvenzioni, in tema di reati ambientali e sicurezza sul lavoro, con conseguente rideterminazione delle pene. Un semplice automatismo che, tuttavia, nulla sposta sul giudizio di responsabilità penale degli imputati né sulle statuizioni civili del processo di primo grado". Spiega la nota stampa dei difensori di parte civile Matteo Ceruti, Carmelo Marcello, Cristina Guasti e Marco Casellato.
"L’impianto accusatorio ha retto, confermando le responsabilità e le pesanti carenze in termini di sicurezza dell’impianto di trattamento di rifiuti delle società Coimpo – Agribiofert, in località America, Ca’ Emo, Adria, dove il 22 settembre del 2014 persero la vita quattro lavoratori, asfissiati da una nube tossica. Quest’ultima si sviluppò al momento dello sversamento di 28 tonnellate di acido solfidrico in una vasca contenente fanghi, da trattare per ottenere fertilizzante".
"Un processo di enorme importanza, sia sotto il profilo della sicurezza sul lavoro che ambientale, quello che vedeva una massiccia rappresentanza della rete professionale Lpteam a tutela delle parti civili costituite, con l’avvocato Matteo Ceruti, promotore della rete professionale, che assisteva le associazioni ambientaliste Legambiente e Wwf Italia, l’avvocato Cristina Guasti, componente della rete professionale, che tutelava un’altra associazione ambientalista, Italia Nostra; inoltre, erano costituiti numerosi privati cittadini, seguiti dagli avvocati Carmelo Marcello e Marco Casellato, pure componenti della rete professionale, oltre ai colleghi Ceruti e Guasti".
"Tre i filoni principali considerati dal corposo capo di imputazione: in primo luogo l’omicidio colposo plurimo, per le quattro morti; quindi, i problemi di sicurezza sul lavoro riscontrati nel corso delle indagini; infine, gli odori molesti che, provocati dall’impianto, avrebbero creato disturbo a varie famiglie residenti nelle vicinanze".
"Come detto, la decorrenza dei termini di prescrizione ha fatto sì che contravvenzioni e reati “minori” fossero estinti, mentre è stata confermata la responsabilità per l’ipotesi di omicidio colposo. Nel proprio excursus, nelle motivazioni depositate lo scorso primo giugno, tuttavia, la Corte di Appello di Venezia ha ripercorso la vicenda, ribadendo le responsabilità che già erano state individuate dal giudice di primo grado del tribunale di Rovigo (Dr.ssa Sefanutti)".
"Sono state, in particolare, messe in risalto quelle che i giudici di primo e secondo grado considerano pesanti lacune sul fronte della sicurezza sul lavoro, come la mancanza di un documento di Valutazione dei rischi, la mancata considerazione del rischio chimico, legato alla possibilità di una reazione chimica come quella avvenuta il giorno della tragedia, eventualità nota, spiegano i giudici d’Appello, sulla scorta delle dichiarazioni dei consulenti, anche a un “chimico appena diplomato”. Allo stesso modo, proseguono le considerazioni dei giudici, il personale non venne mai formato a fronteggiare un rischio chimico, nonostante la natura delle lavorazioni dell’impianto".
"Ancora, nelle motivazioni della sentenza di Appello si ribadisce come il procedimento di trasformazione dei fanghi da depurazione in fertilizzante sarebbe avvenuto in difformità rispetto alla procedura autorizzata, impiegando una “ricetta” del tutto differente. Non solo: si sostiene anche come, a fronte delle istanze della Provincia di Rovigo sul fronte del monitoraggio delle emissioni, gli imputati con ruoli di responsabilità su questo versante sarebbero stati di fatto inerti alle richieste che arrivavano dall’amministrazione".
“Con riguardo alla dotazione di sistemi di allarme o di rilevazione delle emissioni nocive – si legge infatti nelle motivazioni – i periti hanno scritto nel loro elaborato, e confermato a dibattimento, che con missiva del 29 marzo 2012 la Provincia di Rovigo aveva richiesto a Coimpo la valutazione delle emissioni della vasca D (quella dove si sviluppò la reazione chimica mortale, ndr) senza che la società si fosse attivata in alcun modo, addirittura rifiutandosi espressamente di eseguire i monitoraggi richiestile dall’agenzia di controllo, che i vertici Coimpo ritenevano eccessivamente onerosi e costosi, proponendone di nuovi e diversi, giustamente non autorizzati perché ritenuti meno efficaci (…) La presenza dei rilevatori agli addetti alla vasca D, ovvero di sistemi di allarme finalizzati a segnalare tempestivamente incidenti o emergenze, sarebbe stata salvifica e risolutiva; il dotare tutti i lavoratori di rilevatori prevenzionali, che avrebbero sicuramente rilevato la presenza di vapori di acido solfidrico già nella fase di formazione della coltre di nebbia, avrebbe consentito l’allontanamento degli operatori in luogo sicuro ben prima che la concentrazione di acido solfidrico raggiungesse livelli letali”.
"Confermati anche i reati di getto pericoloso e di emissioni diffuse in assenza di autorizzazione con possibili effetti dannosi per la popolazione residente a Cà Emo in quanto "il rilascio di quantitativi non trascurabili, quantomeno di ammoniaca e acido solfidrico, è stato confermato dalle analisi di Osptech" addirittura "fuori scala perché superiori alla capacità dello strumento utilizzato"".
"Per quanto concerne la contestazione relativa alle emissioni maleodoranti che si diffondevano periodicamente dall'impianto e che investivano l'abitato di Ca' Emo, i giudici di Appello ribadiscono e confortano la valutazione dei colleghi di primo grado: una conferma della responsabilità penale, dal momento che le emissioni, come riportato concordemente nelle deposizioni delle parti civili, erano assolutamente difformi da quelle prodotte dagli allevamenti della zona e, soprattutto, coincidevano con i periodi di attività dell’impianto, sparendo quando questo era fermo".
“Tutti i residenti – scrivono ancora i giudici nelle motivazioni – hanno precisato che l’odore acido, proveniente dallo stabilimento o dai fanghi trasportati sugli automezzi in entrata e uscita, era diverso e non confondibile con gli effluvi provenienti dalle vicine porcilaie; ma soprattutto i fastidi olfattivi hanno accompagnato il corso dell’attività dello stabilimento, scomparendo per alcuni mesi dopo l’infortunio, per poi riprendere in qualche modo sino al settembre del 2016 (quando l’impianto fu definitivamente bloccato) e sono oggi assenti”.
Piena soddisfazione per la motivazione della decisione è stata espressa dai legali della rete Lpteam avvocati Casellato, Ceruti, Guasti e Marcello, i quali evidenziano come “l'impianto accusatorio esca rafforzato da questa sentenza di condanna in appello, anche in relazione al risarcimento dei danni alle parti civili, aggiungendo che la Corte d'Appello ha affermato principi di diritto importanti, specie in tema di prevedibilità dell'evento nei reati ambientali e sulla sicurezza del lavoro”.
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