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LA TRAGEDIA DEL VAJONT

“Un deserto di fango e una mano che spuntava”

Il ricordo del giovane ufficiale degli Alpini: “Recuperammo i corpi di una giovane madre e dei suoi bimbi"

"Un deserto di fango e una mano che spuntava"

“Solo una mano, anonima, affiorava dal fango. Il resto era mistero. Una scena spettrale in uno scenario apocalittico”. Gianni Nonnato, già consigliere comunale socialista e assessore provinciale, aveva appena 23 anni, era un giovane ufficiale del corpo degli Alpini, quando venne inviato, nella notte stessa del disastro, a Longarone, spazzata via dall’onda sollevatasi dal bacino del Vajont dopo la frana del monte Toc.

Ora, 60 anni dopo, ricorda “la sorpresa e il mistero” che caratterizzavano “il clima vissuto da quel nostro piccolo gruppo di giovani Alpini, comandati a recuperare i morti causati dall’incoscienza, dalla sete di denaro e dalla disumanità della speculazione”. E in quella desolazione, quel dettaglio indelebile: “Una mano anonima, poco distante dalle macerie della chiesa di Longarone. Era diventata per noi il punto riferimento per individuare cosa celava quel fango. Un compito grave e delicato - ripercorre Gianni Nonnato - per dei giovani che improvvisamente diventavano coscienze adulte”. Per un’esperienza toccante, “che improvvisamente assestava un colpo determinante alla maturazione della nostra storia personale”.

Quel 9 ottobre del 1963 Gianni Nonnato era un ufficiale in forza al settimo reggimento Alpini. “Dormivo da poco. Sono stato svegliato da un allarme, dopo solo pochi minuti di sonno. Solo poche e confuse notizie trapelavano”. Buttati giù dalla branda e spediti sul luogo del disastro. “Non ci comunicarono nemmeno la destinazione - ricorda - ma dopo poco fummo scaricati nei pressi di Faè e fatti proseguire a piedi. I minuti che passavano e lo scenario che andavamo a scoprire manifestavano sempre più l’enormità del compito che ci aspettava. I primi morti si cominciavano a vedere già sulla foce del torrente Maè che scende dalla Valle di Zoldo. Dopo una breve marcia ci fu assegnato lo spazio in cui operare. Il plotone composto da vicentini, romagnoli ed altoatesini, solitamente chiacchieroni e rumorosi, in questa circostanza manifestava un approccio estremamente responsabile e silenzioso”.

Gli Alpini cominciarono “a rimuovere il fango con una perizia ed una sensibilità che nemmeno il più qualificato archeologo avrebbe saputo usare. Alla fine del lavoro capimmo che quella mano era di una giovane madre. Le braccia avvolgevano i suoi due bambini, in età scolare, che erano nel loro lettone. Non è stato possibile capire se si trattava dell’amorevole gesto serale di saluto o del disperato ed inutile tentativo di proteggere le sue creature dall’onda criminale che stava impedendo loro di diventare adulti. In mezzo a tanto dolore a noi fu possibile toccare un inequivocabile gesto di grande amore”.

“Questo - conclude - è parte del mio ricordo di quel tragico evento. Questa è l’immagine indelebile che mi compare spesso davanti agli occhi, non solo in occasione del triste anniversario a quasi sessant’anni dal disastro”. E aggiunge: “Dimenticare è impossibile! Ricordare, un dovere”.

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