VOCE
Adria
26.08.2024 - 00:52
L’ormai prossima partenza di don Lucio Pollini che lascia l’unità pastorale Ca’ Emo, Fasana e Botti Barbarighe, non è un normale cambio di parroco. E’ un qualcosa di più profondo nella vita della chiesa con la riorganizzazione delle parrocchie per far fronte alla sempre più evidente carenza di sacerdoti. Così don Lucio ha offerto ai propri parrocchiani una serie di riflessioni sull’essere Chiesa, soprattutto alla luce della sinodalità voluta da Papa Francesco che chiede un sempre più forte e significativo impegno da parte dei laici.
“La parrocchia non finisce con il proprio parroco – osserva don Lucio - per quanto la figura e la funzione di guida del presbitero sia essenziale. Una parrocchia, se è riuscita a crescere nella fede e nell’amore, al di là di una normale fase di assestamento dovuta al cambio di parroco, resterà in piedi. I parroci sono temporanei: o per disposizioni della Cei o per imposizione del tempo (età), la parrocchia con le sue componenti invece resta e continua nel suo cammino e guai se così non fosse. In questo i laici hanno un ruolo importante che spesso dimentichiamo e non esercitiamo anche perché farlo richiede tempo, pazienza, buona volontà. Delegare tutto a un parroco è più facile che sbracciarsi”.
Una parrocchia, un’unità pastorale e più in generale vivono e vanno avanti che esiste uno spirito sincero di collaborazione che si fonda sull’obbedienza, un valore sempre più ignorato, soprattutto dalle nuove generazione. Così don Lucio approfondisce il concetto di obbedienza ricordando che “da bambini o da giovani spesso non capiamo gli insegnamenti dei genitori ma poi crescendo e guardando indietro, comprendiamo le loro ragioni proprio grazie all’esperienza e a una prospettiva più ampia. Lo stesso accade coi vescovi: non che siano infallibili, per carità, ma sicuramente hanno una visione dell’intera diocesi che ad altri inevitabilmente manca e quindi possono bilanciare e valutarne meglio i bisogni e le necessità”. Ecco perché bisogna saper accettare le decisioni del vescovo anche negli spostamenti dei parroci, perché ha una visione complessità delle diverse necessità della diocesi. Salutare il proprio parroco, soprattutto dopo un’esperienza religiosa e umana più che positiva, come è stato il quinquennio di don Pollini a Ca’ Emo, Fasana e Botti Barbarighe, crea senza dubbio un momento di tristezza, ma questo è un segno sincero della riconoscenza che si deve a quella persona.
A questo punto il sacerdote pone l’attenzione sul vero significato dell’essere parrocchia e comunità cristiana. “La nostra radice è in Gesù – spiega - Ricordiamoci che, per quanto ci possiamo affezionare ai nostri parroci o ai nostri vescovi (ed è bello che sia così), la nostra radice è in Cristo: non andiamo a messa per il parroco, ma per Gesù; non svolgiamo un servizio per il parroco, ma perché ci sentiamo chiamati dal Padre a un atto d’amore. Ecco perché non dobbiamo sentirci attirati o respinti dal presbitero di turno: il parroco è un uomo come noi, anche lui in cammino con i suoi limiti, i suoi errori e come noi ha bisogno di sostegno e accompagnamento spirituale per meglio mettere a frutto i propri talenti e sviluppare la propria esperienza”.
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