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L’ANNIVERSARIO

“Covid, pagina di storia indelebile”

In Polesine furono oltre 103mila i contagi e 820 le vittime. Zaia: “Evento che ci ha segnati”

“Covid, pagina di storia indelebile”

Quei giorni sconvolsero il mondo. Cinque anni fa, venerdì 21 febbraio 2020, all’ospedale di Monselice morì Adriano Trevisan, 77 anni, di Vo’. Fu la prima vittima di Covid in Italia.

La sera prima, il 20 febbraio, nello stesso ospedale, grazie all’intuizione di un medico, venne identificato quello che ancora veniva chiamato “il coronavirus cinese” in due pazienti, lo stesso Trevisan e un altro pensionato, suo amico e compaesano, ricoverati ormai da una decina di giorni per una strana malattia. Quella sera, a Schiavonia, scattò il panico: l’ospedale venne circondato dai carabinieri, e chi era all’interno, compreso il personale di turno, ci rimase per oltre 24 ore filate in attesa di capire se il virus si era diffuso. Erano tempi in cui, ancora, non si sapeva nulla di ciò che era davvero il Covid, e di quanto potesse essere letale. Poche ore dopo, l’esercito circondò Vo’ nel tentativo, vano, di fermare il contagio. Tutto vano. Il virus, ormai, si era diffuso e il piccolo paese euganeo, e poi Codogno, nella pianura della Bassa Lombardia, a due passi da Piacenza, dove venne identificato il “paziente zero” erano soltanto i primi a fare i conti con un incubo che, presto, riguardò tutto il Paese.

Meno di una settimana dopo, il 27 febbraio, la Regione Veneto prese una decisione che segnò radicalmente l’approccio alla pandemia: nella zona rossa di Vo’ venne sottoposta a screening l’intera popolazione, con quasi 7mila tamponi eseguiti e un tasso di positività dell’1,7% della popolazione. Da lì iniziò una maratona che portò ad eseguire 13mila tamponi al giorno in tutta la Regione. E per capire la portata dell’operazione bisogna fare uno sforzo di memoria: cinque anni fa nessuno (addetti ai lavori esclusi) sapeva cosa fosse un tampone, né tantomeno come si usasse. La stessa Ulss 5 nelle proprie disponibilità non ne aveva che un centinaio. L’8 ottobre, poco più di sette mesi dopo, soltanto in provincia di Rovigo si sfondò il muro dei 100mila test fatti.

Ma torniamo alla nostra storia: il 29 febbraio, otto giorni esatti dopo il primo decesso, il virus arrivò anche in Polesine. A risultare positivo, finendo ricoverato in ospedale, un 50enne di Adria. Il 3 marzo, in tutta Italia, erano tremila persone positive. Il 9 marzo il governo (il premier, lo ricorderete, era Giuseppe Conte) dichiarò la zona rossa, l’11 scattò il lockdown.

La prima vittima, nella nostra provincia, si registrò quasi un mese dopo l’inizio dell’emergenza: era martedì 17 marzo quando perse la vita Bruna Trentini, 91 anni, di Bergantino. Nella prima ondata del virus, che di fatto si concluse a fine aprile, in Polesine, furono 424 i contagi e 23 i decessi. Molto più male fece la seconda ondata, quella dell’inverno 2020-2021, delle zone rosse e del Natale senza parenti: il 27 dicembre 2020 in Polesine si contavano 7.133 positivi da inizio emergenza e 190 vittime; l’11 maggio successivo 13.874 contagi e 517 morti, poco meno di 500 dei quali concentrati nei precedenti sette mesi. A ottobre 2022, quando l’emergenza venne dichiarata conclusa, il Polesine aveva pianto 820 decessi e 103mila persone contagiate.

E di “pagine indelebili della nostra storia” ha parlato, ieri, il governatore del Veneto Luca Zaia ricordando i cinque anni dall’inizio dell’emergenza. “Ricordo di aver percepito l’interruzione di un’attesa e la sensazione che si aprisse una guerra”, dice il governatore, aggiungendo: “Tutto quell’evento, infatti, ha profondamente segnato la nostra comunità e i sistemi sanitari di tutto il mondo, scrivendo pagine indelebili della nostra storia”.

Oggi - richiama Zaia - “è un dovere ricordare le vittime della pandemia e rendere omaggio all'impegno straordinario di medici, infermieri, operatori sanitari, volontari, lavoratori dei trasporti e dei servizi essenziali e cittadini che, con dedizione e sacrificio, hanno contribuito a fronteggiare la gravissima situazione. Un pensiero di riconoscenza e gratitudine voglio dedicarlo in particolare a tutti i camici bianchi, che con altruismo eroico e professionalità sono stati in prima linea. Vorrei che i sentimenti e la considerazione che in quella circostanza abbiamo avuto per i nostri professionisti della sanità non venissero mai dimenticati. A pochi anni di distanza, invece, assistiamo increduli a un cambio di atteggiamento nei confronti di chi lavora in corsia, sempre più spesso oggetto di aggressioni o di scarsa considerazione”.

Zaia, nel ricordare i 17mila veneti che persero la vita per il Covid sottolinea come “in quell’occasione il Veneto ha dato prova di senso di responsabilità e grande capacità organizzativa adottando provvedimenti sperimentali replicati successivamente su scala nazionale”. Poi “quel senso di guerra che avevo paventato si è fatto realtà in lunghi mesi, in cui ogni giorno sembrava interminabile l’elenco dei decessi che mai avrei pensato di dover affrontare nella mia esperienza di amministratore pubblico”. Infine, un raggio di speranza: “La campagna vaccinale, insieme all’adozione di misure di prevenzione non farmacologica e all’intensa attività di contact tracing per la tempestiva individuazione dei focolai - conclude il governatore del Veneto - ha svolto un ruolo decisivo nella riduzione dei decessi e nell’alleggerimento del carico sui reparti ospedalieri”. Il vero punto di svolta di questa tragica storia.

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