VOCE
CRONACA
07.07.2025 - 21:30
L’Italia è il Paese del G20 in cui i salari sono crollati di più dal 2008. Lo dice l’ultimo rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL): in termini reali, gli stipendi italiani sono diminuiti dell’8,7% negli ultimi quindici anni. Un dato allarmante, che racconta molto più di una semplice statistica economica: fotografa una crisi strutturale, che ha minato alla base il potere d’acquisto e la dignità di milioni di persone.
Questa contrazione colpisce in modo sproporzionato i lavoratori a basso reddito, ossia coloro che spendono la maggior parte del proprio stipendio in beni essenziali – cibo, trasporti, affitto – proprio quelli che hanno subito i rincari maggiori negli ultimi anni. In altre parole, chi già viveva al limite, oggi sopravvive. E spesso non ce la fa nemmeno.
L’Italia condivide questo declino salariale con altre economie avanzate come Giappone (-6,3%), Spagna (-4,5%) e Regno Unito (-2,5%). Ma nessuna di queste ha subito una contrazione così netta come quella italiana. In un panorama in cui la produttività cresce e gli utili aziendali continuano ad aumentare, la domanda sorge spontanea: dove finiscono i frutti del lavoro?
La risposta è amara ma chiara: nei profitti di pochi. Mantenere i salari bassi può far comodo a chi accumula capitali, ma a livello sistemico non porta crescita, né giustizia sociale. Il divario tra ricchi e poveri si amplia, mentre la classe media si assottiglia. Chi possiede patrimoni importanti li vede consolidarsi, chi vive di stipendio fatica a sostenere il costo della vita.
Eppure, le soluzioni esistono. Si può tassare in modo equo le grandi multinazionali e i grandi patrimoni, oggi spesso esentati o agevolati. Si può introdurre un salario minimo legale, come esiste nella quasi totalità dei Paesi europei. Ma in Italia, nonostante le ripetute richieste di sindacati, esperti e parte dell’opinione pubblica, la proposta è stata ancora una volta respinta.
Non è più il tempo dell’indifferenza o dei calcoli di convenienza. È il momento di riscrivere le priorità della politica economica mettendo al centro il lavoro, la sua dignità, la sua retribuzione. Serve un impianto legislativo e contrattuale che garantisca ai lavoratori la possibilità di vivere, non di sopravvivere.
Sulla Carta, l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Ma oggi quella promessa sembra sempre più lontana. Se vogliamo davvero onorarla, dobbiamo cominciare con i fatti: più equità, più tutele, più giustizia salariale.
Perché un Paese che non protegge chi lavora è un Paese che si condanna da solo.
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