VOCE
cgia
17.08.2025 - 07:25
Tra il 2023 e il 2024 il calo è stato di 385. Il tracollo nel resto del veneto è più contenuto
Lo si è detto e scritto più volte: l’artigianato è in difficoltà. E lo dimostrano anche i recenti dati della Cgia di Mestre. Numeri che fotografano una difficoltà del settore in tutta Italia, e in particolar modo in Polesine. La provincia di Rovigo, infatti, è al 19esimo posto (e peggiore in Veneto, nazionale per quel che riguarda il calo di imprese artigiane negli ultimi 10 anni.
Nell’ultimo decennio infatti la provincia veneta che ha sofferto la contrazione del numero di artigiani più importante è stata Rovigo. Il capoluogo polesano ha registrato una diminuzione del 31,4 per cento tra il 2014 e il 2024 (-2.905 artigiani). Seguono Verona con il -27 per cento (-9.726) e Padova con il -24,3 per cento (-9.130). La realtà che, invece, ha subito la riduzione più contenuta è stata la città metropolitana di Venezia con il -20,3 per cento (-5.552). Nell’ultimo anno, infine, la situazione più critica ha riguardato la provincia di Treviso che ha subito una diminuzione del numero degli artigiani del 6,1 per cento (-1.720).
Tornando al Polesine negli ultimi 10 anni le imprese artigiane sono passate dalle 9.251 del 2014 alle 6.346 del 2024. Erano 6.731 nel 2023. Con un calo, in un anno di 385 (meno 5,7%). In Veneto la media del tracollo decennale è stata del meno 23,8%. Rovigo sprofonda, quindi con un meno 31,4%
In Italia negli ultimi 10 anni il numero degli artigiani presenti in Veneto ha subito un crollo verticale di quasi 44.500 unità. Se nel 2014 ne contavamo 186.398, l’anno scorso la platea è scesa a 141.958 (-24 per cento). Pertanto, possiamo affermare con grande preoccupazione che in due lustri quasi un artigiano veneto su quattro ha gettato la spugna. Anche nell’ultimo anno la contrazione è stata importante: tra il 2024 e il 2023 il numero complessivo è sceso di oltre 7.500 unità (-5,1 per cento). Sia chiaro: non è un problema solo del Veneto. La riduzione ha interessato tutte le regioni d’Italia, nessuna esclusa. Nell’ultimo decennio le aree più colpite da questa “emorragia” sono state le Marche (-28,1 per cento), l’Umbria (-26,9), l’Abruzzo (-26,8) e il Piemonte (-26). Il Mezzogiorno, invece, è stata la ripartizione geografica che ha subito le “perdite” più contenute. Grazie, in particolare, agli investimenti nelle opere pubbliche legati al Pnrr e agli effetti positivi derivanti dal Superbonus 110 per cento, il comparto casa ha “frenato” la caduta del numero complessivo di artigiani di questa ripartizione geografica. La denuncia è sollevata dall’Ufficio studi della Cgia che ha elaborato i dati dell’Inps.
Va comunque segnalato che questa riduzione in parte è anche riconducibile al processo di aggregazione/acquisizione che ha interessato alcuni settori dopo le grandi crisi 2008/2009, 2012/2013 e 2020/2021. Purtroppo, questa “spinta” verso l’unione aziendale ha compresso la platea degli artigiani, ma ha contribuito positivamente ad aumentare la dimensione media delle imprese, spingendo all’insù anche la produttività di molti comparti; in particolare, del trasporto merci, del metalmeccanico, degli installatori impianti e della moda.
Le cause L’invecchiamento progressivo della popolazione artigiana, provocato in particolar modo anche da un insufficiente ricambio generazionale, la feroce concorrenza esercitata nei decenni scorsi dalla grande distribuzione, dal commercio elettronico, dalla burocrazia, dal boom del costo degli affitti e dalle tasse nazionali/locali hanno costretto molti artigiani ad alzare bandiera bianca. Una parte della “responsabilità”, comunque, è ascrivibile anche ai consumatori che in questi ultimi tempi hanno cambiato radicalmente il modo di fare gli acquisti, sposando la cultura dell’usa e getta, preferendo il prodotto fatto in serie e consegnato a domicilio.
Negli ultimi 45 anni, sostiene la Cgia, c’è stata una svalutazione culturale spaventosa del lavoro manuale. L’artigianato è stato “dipinto” come un mondo residuale, destinato al declino e per riguadagnare il ruolo che gli compete ha bisogno di robusti investimenti nell’orientamento scolastico e nell’alternanza tra la scuola e il lavoro, rimettendo al centro del progetto formativo gli istituti professionali che in passato sono stati determinanti nel favorire lo sviluppo economico del Paese. Oggi, invece, sono percepiti dall’opinione pubblica come scuole di serie b e in taluni casi addirittura di serie c. Per alcuni, infatti, rappresentano una soluzione per parcheggiare per qualche anno i ragazzi che non hanno una grande predisposizione allo studio. Per altri costituiscono l’ultima chance per consentire a quegli alunni che provengono da insuccessi scolastici, maturati nei licei o nelle scuole tecniche, di conseguire un diploma di scuola media superiore.
I settori Non tutti i settori artigiani hanno sentito gli effetti della crisi. Quelli del benessere e dell’informatica presentano dati in controtendenza. Nel primo, ad esempio, si continua a registrare un aumento/tenuta degli acconciatori, degli estetisti e dei tatuatori. Nel secondo, invece, sono in decisa espansione i sistemisti, gli addetti al web marketing, i video maker e gli esperti in social media. Va altrettanto bene anche il comparto dell’alimentare, con risultati significativamente positivi per le gelaterie, le gastronomie e le pizzerie per asporto ubicate, in particolare, nelle città ad alta vocazione turistica.
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