VOCE
L'ANNIVERSARIO
22.08.2025 - 16:43
Un muro vuoto, un lunedì d’agosto, un copista interdetto. Così inizia la leggenda moderna della Gioconda. Quando, il 22 agosto 1911, il pittore Louis Béroud raggiunse di buon’ora la sala del Louvre per copiare il ritratto più enigmatico di Leonardo, trovò solo l’impronta lasciata dal quadro. Quel vuoto, amplificato dai giornali, trasformò Monna Lisa da capolavoro rinascimentale a icona globale. Ma la sua storia, prima e dopo il furto, è un romanzo di viaggi, equivoci, patriottismi ingenui e reputazioni costruite anche sulle assenze.
Tra il 1502 e il 1503 Leonardo da Vinci, a Firenze, accettò la commissione del mercante Francesco del Giocondo: ritrarre la moglie, Lisa Gherardini. L’opera divenne, com’è tipico del maestro, un cantiere di perfezione: lavorata per anni, portata a Milano nel 1507 e ritoccata fino al 1513. Il dipinto non fu mai consegnato ai committenti. Nel 1517 seguì Leonardo in Francia, ad Amboise, dove l’artista fu chiamato da Francesco I come pittore di corte; alla morte di Leonardo, la Gioconda entrò nelle collezioni reali, peregrinò tra residenze, approdò infine al Louvre. Napoleone la volle alle Tuileries, nella camera di Joséphine, poi tornò al museo. Intanto, nell’età romantica, gli artisti e gli scrittori le attribuirono un’aura di femme fatale: il sorriso, da ambiguità pittorica, divenne mito.
È Le Figaro del 23 agosto 1911 a restituirci i brividi di quelle ore. Allertato da Béroud, il brigadiere Poupardin ipotizzò un innocuo trasferimento nello studio fotografico Braun, autorizzato a muovere le opere per riproduzioni fuori orario. Ma la tavola non era lì. Nel museo rimasero solo la cornice e il vetro: porte serrate, sale evacuate, personale interrogato. Fu il primo clamoroso furto museale dell’epoca contemporanea, capace di incendiare l’opinione pubblica. Si sospettarono operai visti il giorno prima nella sala, poi persino Guillaume Apollinaire e Pablo Picasso (il primo venne arrestato), mentre nelle redazioni prendevano corpo fantasie di complotti stranieri. Per due anni il Louvre restò orfano di Monna Lisa.
La svolta arrivò in Italia. Il 24 novembre 1913 l’antiquario fiorentino Alfredo Geri ricevette una lettera firmata “Leonardo V.”: proponeva di “riportare” la Gioconda in patria, preferibilmente agli Uffizi. Geri informò il direttore della Galleria, Giovanni Poggi (Firenze, 1880–1961). I due fissarono un incontro per l’11 dicembre, nel negozio dell’antiquario, quindi si spostarono nell’albergo del mittente. Ad attenderli non c’era un geniale ladro da romanzo, ma un imbianchino italiano: Vincenzo Peruggia (Dumenza, 1881 – Saint-Maur-des-Fossés, 1925). Animato da un ingenuo patriottismo, ignorava la provenienza legittima dell’opera in Francia e credeva di restituire un bene “rubato” da Napoleone.
Poggi verificò l’autenticità della tavola e avvisò le autorità. Arrestato, Peruggia raccontò di aver lavorato al Louvre e di aver montato lui stesso la teca della Gioconda: conosceva quindi abitudini e varchi del museo. La notte precedente al furto si nascose in uno stanzino; la mattina, museo chiuso, smontò la protezione, prese il dipinto, lo avvolse nel cappotto e uscì indisturbato. Tornò in pensione in taxi, ripose l’opera in una valigia sotto il letto e la tenne nascosta per ventotto mesi. È una dinamica tanto lineare quanto rivelatrice di come, all’epoca, la sicurezza museale confidasse più nell’abitudine che nella prevenzione. Il processo si svolse a Firenze nel giugno 1914. La Gioconda era già rientrata in Francia, tra l’esultanza dei parigini. A Peruggia furono riconosciute attenuanti per infermità mentale; la condanna fu di un anno e mezzo di prigione. Il suo patriottismo naïf suscitò in molti una curiosa indulgenza, ma il gesto restò sconsiderato. Intanto, i giornali europei continuarono a rafforzare la leggenda: Monna Lisa era ormai più che un capolavoro, era un personaggio. Paradossalmente, la celebrità smisurata della Gioconda nasce in gran parte qui: dalla cronaca nera, dai titoli a tutta pagina, dai poster su Le Petit Parisien e la Domenica del Corriere, dalla teatralità del ritrovamento a Firenze.
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