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POLITICA

Ponte sullo Stretto, Washington frena

Stop a Roma: il ponte non vale come spesa Nato per l'obiettivo del 5%

Ponte sullo Stretto, Washington frena: niente “spesa militare” per centrare i target Nato

Una scorciatoia contabile per alleggerire i conti pubblici, un no secco da Washington e, sullo sfondo, il nuovo patto Nato che alza l’asticella delle risorse per difesa e sicurezza. Il tentativo del governo italiano di far rientrare i costi del Ponte sullo Stretto di Messina tra le spese utili a raggiungere i target dell’Alleanza è stato respinto dagli Stati Uniti.  Il progetto del ponte sullo Stretto, dal valore stimato di circa 13,5 miliardi di euro, è stato indicato da Roma come intervento da ricondurre all’impegno Nato di aumento della spesa complessiva, con l’obiettivo di portarla al 5% del prodotto interno lordo entro il 2035. L’idea, sostenuta in particolare dal ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti, puntava a utilizzare i margini interpretativi delle regole dell’Alleanza per classificare l’opera come infrastruttura a supporto della difesa, alleggerendo così il peso sui conti nazionali.


La risposta americana è arrivata per voce dell’ambasciatore Usa presso la Nato, Matthew Whitaker, in un’intervista a Bloomberg: nessuna apertura alla “contabilità creativa” da parte degli alleati europei per centrare i target. Whitaker ha rimarcato la necessità di una distinzione netta tra spese militari in senso stretto e più ampie spese di sicurezza, segnalando colloqui con diversi Paesi inclini a interpretazioni troppo estensive di cosa rientri nella difesa.


L’intesa raggiunta a giugno al vertice dell’Aja fissa due capitoli di spesa: il 3,5% del Pil alla difesa propriamente detta (armamenti, personale, forze armate) e l’1,5% alla sicurezza, comprendente infrastrutture strategiche come porti e ferrovie, investimenti in cybersicurezza, posa di cavi sottomarini per energia, gas e dati e interventi legati alla gestione dei flussi migratori. L’aumento complessivo al 5% è stato fortemente voluto dal presidente statunitense Donald Trump, che ha più volte accusato i membri Nato di non contribuire abbastanza.


L’Italia, insieme agli altri 31 Paesi alleati, ha sottoscritto l’impegno. Oggi figura tra i maggiori contributori: quinta per spesa, con circa 35 miliardi di euro lo scorso anno. Per centrare il traguardo fissato all’Aja, però, sarà necessario un ulteriore incremento. Anche per questo Roma aveva valutato la possibilità di conteggiare il ponte tra le spese utili agli obiettivi Nato.
La linea americana restringe lo spazio per soluzioni elastiche e riporta il dibattito nell’alveo dei criteri condivisi. La domanda di fondo resta la stessa: fino a che punto un’infrastruttura civile, per quanto strategica, può essere assimilata alla difesa? La richiesta di distinguere chiaramente tra “difesa” e “sicurezza” impone maggiore disciplina nella classificazione delle voci e rende più arduo far rientrare opere simboliche in capitoli di bilancio militare. Per l’Italia, chiamata a bilanciare sostegno all’Alleanza e sostenibilità dei conti, si profila un percorso più lineare ma anche più oneroso. La partita, ora, si gioca sui dettagli: definizioni, metriche di rendicontazione, governance delle spese

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