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la cerimonia

Don Milani, un modello vivo

L’incontro con il primo allievo di Barbiana, aperta anche la mostra fino al 24 ottobre

Scarpe fradice, strada impraticabile, se così si poteva chiamare, e nemmeno il cartello di quel posto dimenticato dal mondo, ma utile come buona terra di confino, Barbiana. Arrivava nella sera del 7 dicembre 1954Lorenzino”, don Milani. È arrivata ieri mattina, con contentezza e grande soddisfazione, l’intitolazione ufficiale della sede rodigina del Cpia (Centro provinciale istruzione adulti) all’Urban digital center, proprio a lui, uomo, sacerdote, maestro di quella “lettera a una professoressa” che fece il giro del panorama politico e sociale italiano, tra contrasti, polemiche, ricerche di una Parola da comunicare insegnando le parole, piantando semi educativi ancora oggi patrimonio della formazione.

“Da luogo anonimo, oggi il Cpia passa a portare il nome di questa figura; comporta per noi l'assunzione di una grande responsabilità nel nostro lavoro di educatori ogni giorno. Viene aperta, inoltre, una mostra dedicata a cura della fondazione Milani; sarà visitabile fino al 24 ottobre” ha esordito la dirigente Giuliana Moretti, allo scoprimento della targa esterna insieme all’assessore comunale Erika De Luca, che ha ribadito “non poteva esserci un luogo migliore” e all’ospite d’eccezione della giornata, il primo bambino e poi allievo che conobbe don Lorenzo: Agostino Burberi.

“Questa diventa in effetti la 978esima scuola a portarne il nome” ha spiegato quest’ultimo, introducendo a ricordi e memorie di 10 anni trascorsi insieme a lui. “Barbiana era il nulla. Non c’era energia elettrica, ovviamente nemmeno l’acqua potabile in casa, figuriamoci la strada. Fui il primo bambino ad incontrarlo perché prima del suo arrivo ero già chierichetto con il parroco precedente. Mi ricordo quella notte, pioveva molto. Eravamo in chiesa per recitare le litanie in preparazione alla festa dell’Immacolata, lui entrò tutto bagnato mettendosi negli ultimi banchi. E subito gli occhi dei contadini di montagna, ben più sospettosi di quelli di campagna e tanto più testardi (ha fatto sorridere) lo hanno puntato squadrandolo” ha aggiunto. “Tempi molto diversi: eravamo in 120 abitanti, le famiglie vicine al prete erano due su venti. Lì morivano di fame i contadini, vivevamo al limite della sopravvivenza” ha appuntato, raccontando una routine quotidiana impastata a sudore e sassi tolti dalla terra scavata a mano – perché il trattore era il ben di lusso - non dimenticandosi di sorvegliare gli unici beni ancora sfruttabili, i castagni. Ripercorrendo i passi del prete “cattocomunista” (come lo definirono gli oppositori), dall’agiata infanzia tra padre agnostico, madre ebrea e una conversione adulta passata attraverso la pittura all’Accademia di Brera, ha ricordato: “Avevo 8 anni. Il giorno seguente il suo arrivo, don Lorenzo informò i nostri genitori che voleva avviare un doposcuola. Da lì iniziò tutto. Ci accolse nel salotto della canonica: fu un fatto rivoluzionario perché fino ad allora nessuno vi era mai entrato. Come prima cosa staccò anche il campanello (a molle) e lasciò il cancello sempre aperto”. Scorgendo le immagini della mostra, istantanee di ragazzi che imparavano le lingue ascoltando i giradischi, un unico libro condiviso e sfogliato su quei tre tavoli messi a ferro di cavallo, e ancora “i care”, il cartello del “mi sta a cuore”. Missione, ha ribadito rivolto al Cpia rodigino: “Che deve prendere dal fiore al fiore di ogni cultura, integrando. E, citando Milani, non è importante come si fa scuola ma come bisogna essere per farla”.

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