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CRONACA

I fratelli Ramponi e la casa-bomba

La disperazione di tre fratelli ha trasformato un pignoramento in tragedia

I fratelli Ramponi e la casa-bomba

Dietro la strage dei carabinieri di via San Martino 22, a Castel D’Azzano, non c’è solo la follia di un gesto improvviso. C’è una storia di rancore, isolamento e ingiustizie percepite. Una vicenda che parte da un frutteto e finisce in un casolare ridotto in macerie, con tre fratelli – Franco, Dino e Maria Luisa Ramponi – accusati ora di strage.

Un frutteto e un mutuo da 70 mila euro

Tutto comincia con una richiesta di mutuo. Franco Ramponi, agricoltore di 65 anni, chiede al Credito Padano un prestito di 70 mila euro per piantare alberi da frutto nei terreni di famiglia. Ma i pagamenti si interrompono quasi subito e la banca avvia una procedura esecutiva.
Da qui nasce la teoria della firma falsa: Franco denuncia di non aver mai firmato quel contratto, sostenendo che il fratello Dino lo abbia fatto al suo posto. «Ci sono perizie che lo confermano», dirà poi ai giornali locali. Ma per la banca e il tribunale la storia non regge: parte del mutuo era servita a pagare debiti personali di Franco, e il credito viene ceduto a una società di recupero.

La casa pignorata e l’ossessione per la giustizia

La famiglia Ramponi viveva in quella casa colonica ereditata dai genitori, circondata da campi e mucche. Tutti e tre non sposati, senza figli, con un legame quasi simbiotico. Da anni si sentivano vittime di un complotto: banche, avvocati, giudici e creditori “contro di loro”.
Nel 2024, quando arriva l’ordine di sgombero, si barricano in casa, riempiendola di bombole del gas. La Procura dispone una perquisizione temendo che possano essere armati. Da allora, il casolare diventa una trincea.

“Ci portano via tutto”

Pochi giorni prima della tragedia, Franco aveva dichiarato: «Ci hanno già portato via l’azienda agricola, ora vogliono la casa. Lottiamo da cinque anni per avere giustizia».
Anche la sorella Maria Luisa, 60 anni, parlava di “pignoramento ingiusto” e “perizie truccate”. Nel frattempo, i debiti crescevano e i contatti con il mondo esterno si riducevano. «Non venivano nemmeno a fare la spesa», raccontano i vicini. Nessuna richiesta di aiuto al Comune, nessuna fiducia nelle istituzioni.

Il giorno della strage

Via San Martino 22 diventa teatro dell’inferno. All’arrivo dei carabinieri per l’ennesimo tentativo di mediazione, la casa esplode. Le bombole, le molotov, la benzina: tutto pronto da giorni.
Franco e Dino si erano barricati all’interno, mentre Maria Luisa parlava al telefono con una giornalista: «Abbiamo riempito la casa di gas, non ci arrenderemo».
Pochi minuti dopo, il boato. Due carabinieri muoiono, tre restano feriti. I fratelli vengono estratti vivi, ustionati ma coscienti.

Un isolamento lungo una vita

Chi li conosce racconta di una famiglia chiusa, diffidente, segnata da un passato di solitudine. «Non avevano luce né gas, lavoravano di notte nei campi con un faro», dice un vicino. «Si sentivano in guerra con il mondo».
Nel 2021 uno dei fratelli era salito sul tetto del tribunale di Verona, minacciando di buttarsi giù. Anche allora dicevano di essere “vittime della firma falsa”.

L’ultima resistenza

«Ci è rimasta solo la casa e ora vogliono portarci via anche quella», ripeteva Maria Luisa.
Per i fratelli Ramponi, quella non era solo una proprietà, ma l’ultimo frammento di identità. Quando hanno capito di perderla, hanno deciso di farla saltare.
E così, da un mutuo di 70 mila euro e una firma contestata, si è arrivati a una strage che sconvolge l’Italia.

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