Cerca

L’INTERVISTA

L’energia nucleare per crescere

Tarantino (ENEA): "La tecnologia che proponiamo oggi è più matura, più sicura e più affidabile"

L'energia nucleare per crescere

Sono passati quasi quarant’anni dal referendum che fermò le centrali nucleari in Italia. Era il 1987. In questi quasi quattro decenni, dopo un primo momento in cui (quasi) tutto ciò che riguardasse la fissione nucleare è rimasto in una sorta di limbo, la ricerca sul nucleare in Italia è continuata grazie all’ENEA, oggi l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, che ha portato avanti studi all’avanguardia su questo fronte.

Se oggi si è ricominciato a parlare di nucleare per la produzione di energia, se il Governo ha approvato un disegno di legge delega in materia di energia nucleare sostenibile, prevedendo investimenti cospicui sia nella ricerca che nel privato che potrebbe realizzare gli impianti, significa che qualcosa è cambiato. Ma cosa da quel referendum del 1987, figlio dell’incidente di Chernobyl?

Per capirlo meglio abbiamo intervistato l’ingegnere Mariano Tarantino (nella foto), responsabile della divisione Sistemi Nucleari per l’Energia per ENEA, che ha la sua base nel centro ricerche di Bologna e coordina le attività fissione del Brasimone, uno dei maggiori centri di ricerca a livello nazionale e internazionale.

Parto da una constatazione: quando si dice “nucleare”, molti pensano subito a Chernobyl e Fukushima. La diffidenza nasce da lì. Può aiutarci a capire cosa è cambiato rispetto a ieri e cosa si sta cercando di fare oggi?

“Intanto ricordiamo che, dal 1986 a oggi, il nucleare nel mondo non ha prodotto solo notizie negative: ha generato una grande quantità di elettricità senza emissioni di CO2, con prezzi relativamente bassi e, soprattutto, con una produzione continua e affidabile. E’ importante non considerare solo gli incidenti, ma anche ciò che ha funzionato e continua a funzionare”.

Certo. In Italia non produciamo più elettricità dal nucleare, ma a livello mondiale la tecnologia è progredita. Partiamo allora da Chernobyl: che cosa abbiamo imparato?

“Chernobyl fu un incidente gravissimo che provocò il rilascio di una grande quantità di prodotti radioattivi all’esterno del reattore. Sottolineo ‘del reattore’ e non ‘del contenimento’ perché quel reattore non aveva un contenimento in cemento armato come quelli adottati oggi. Era un impianto nato anche per estrarre plutonio in maniera continua: una scelta che complicò la progettazione, aumentò i costi e portò a rinunciare a un contenimento robusto. Oggi questa lezione è scolpita nella progettazione: tutti i reattori di nuova generazione prevedono un contenimento in grado di evitare proprio quel tipo di rilascio. A questo si aggiungono altri cambiamenti: formazione degli operatori molto più strutturata, addestramento all’emergenza, e soprattutto verifiche indipendenti da parte di organismi terzi. Ci sentiamo di dire che quanto accaduto a Chernobyl non è ripetibile con gli standard attuali”.

E Fukushima? Lì il contesto è diverso.

“Sì. A Fukushima un terremoto eccezionale ha generato uno tsunami altissimo, parliamo di un’onda intorno ai 14 metri, superiore alle massime registrazioni storiche considerate in sito. Le barriere anti-tsunami c’erano, ma quell’evento le ha superate. Le vittime sono state causate dal terremoto e dallo tsunami; per la parte strettamente nucleare si parla dell’ordine di grandezza di poche unità, legate al ricollocamento della popolazione dopo l’incidente. Anche da Fukushima, però, l’industria ha tratto lezioni decisive: oggi i reattori si progettano per resistere a eventi esterni estremi, dall’alluvione al sisma”.

Veniamo a un punto molto concreto. Si legge spesso anche di reattori “nuovi” che usano più l’acqua per il raffreddamento, ma metalli liquidi, in Italia, soprattutto piombo. Perché questo cambiamento?

“Facciamo un passo alla volta. Oggi sul mercato esistono già reattori ad acqua di generazione III+: sono sistemi ‘commerciali’ con standard di sicurezza elevatissimi. Parallelamente si stanno sviluppando i reattori di quarta generazione, che puntano ad arrivare sul mercato tra gli anni ’30 e ’40 del secolo. Alcuni di questi sostituiscono l’acqua con il piombo liquido come fluido di raffreddamento. Il piombo ha diversi vantaggi. Il più importante è che consente di realizzare reattori veloci: senza l’acqua che ‘rallenta’ i neutroni, la reazione avviene con neutroni ad energia più alta, appunto veloci. Questo permette di utilizzare non solo il materiale fissile, ma anche il materiale fertile e gli attinidi minori presenti nel combustibile. In parole semplici: una parte di ciò che oggi chiamiamo ‘scorie’ può diventare energia. E’ la cosiddetta chiusura del ciclo del combustibile”.

Cosa comporta?

“Che si riducono volume e pericolosità delle scorie e si accorciano i tempi di stoccaggio: non più migliaia o centinaia di migliaia di anni in un deposito geologico, ma qualche secolo in un deposito superficiale, una scala temporale più gestibile. Inoltre il piombo non interagisce né con l’acqua né con l’aria, ha una temperatura di ebollizione molto alta, circa 1750°, e quindi praticamente non bolle mai, scherma bene le radiazioni e trattiene i prodotti di fissione. In ultimo, favorisce anche l’adozione di sistemi passivi per la sicurezza, progettati per funzionare senza l’intervento umano o l’uso di energia esterna: tutte queste caratteristiche rendono i reattori a piombo affidabili e sicuri e il candidato ideale per il nuovo nucleare che vogliamo costruire”.

Parliamo degli Small Modular Reactor, gli SMR. Perché se ne discute tanto?

“Perché gli SMR intercettano bisogni diversi rispetto ai grandi impianti: distretti industriali, siti remoti, integrazione con le rinnovabili. Le rinnovabili sono essenziali e vanno potenziate, ma sono intrinsecamente variabili: il sole non splende sempre, il vento non soffia sempre. Oggi la stabilità di rete, quando manca sole e vento, spesso la assicuriamo bruciando gas. Se però vogliamo decarbonizzare, il nucleare è il pilastro in grado di sostenere le rinnovabili senza emettere CO2. Reattori di piccola o media taglia si adattano bene a reti come la nostra”.

Una distinzione che genera spesso confusione: fissione e fusione. Quello di cui stiamo parlando finora è la fissione, giusto?

“Sì. La fusione è più lontana nel tempo per la produzione elettrica. ENEA è protagonista anche lì: si lavora sul progetto Iter, e in Italia realizziamo il DTT, Divertor Tokamak Test Facility a Frascati. Ma sono macchine di ricerca che consumano energia e non la producono: servono a dimostrare e sviluppare tecnologie. In seguito, arriveranno gli impianti che produrranno elettricità, ma dovranno anche essere competitivi sul piano economico”.

Rimaniamo allora sulla fissione avanzata. So che al Brasimone state lavorando a un dimostratore.

“Esatto. Qui al Brasimone stiamo costruendo PRECURSOR, un dimostratore elettrico di un reattore avanzato raffreddato a piombo. Non è un impianto nucleare - non c’è combustibile - ma riproduce i sistemi e i componenti chiave che troveremo nel reattore vero. E’ un progetto che ENEA porta avanti con la startup newcleo, nata nel 2021. L’entrata in operazione del dimostratore è prevista dai primi mesi del 2027. L’obiettivo di newcleo è proporre sul mercato reattori a piombo nei primi anni ’30. La famiglia tecnologica è quella degli LFR, Lead cooled Fast Reactor”.

ENEA però non si occupa solo di energia. C’è tutto il mondo delle applicazioni mediche e ambientali.

“In Italia il settore che genera più rifiuti radioattivi è, effettivamente, quello medicale. Anche senza centrali, quindi, dobbiamo gestire dei rifiuti e prima o poi il deposito superficiale nazionale andrà realizzato. Nella ricerca, lavoriamo su diversi fronti: sui radiofarmaci, ad esempio, con il progetto Sorgentina, un prototipo di sorgente di neutroni da 14 MeV, per la produzione industriale di radioisotopi; ma anche su generatori di neutroni per applicazioni oncologiche, in particolare per alcuni tumori solidi. C’è poi il capitolo ambiente: sviluppo di droni con strumentazione a bordo per il monitoraggio e per la ricerca di eventuali sorgenti radioattive disperse”.

Sul territorio lavorate a stretto contatto con istituzioni e imprese.

“Diversi progetti sono finanziati dalla regione Emilia-Romagna. Collaboriamo con l’industria: oltre a newcleo, abbiamo una proficua collaborazione con Ansaldo Nucleare, in particolare nell’ambito del consorzio “Eagles-300” che punta a sviluppare un reattore di quarta generazione nel medio termine. ENEA ha il ruolo di sviluppatore di tecnologie a servizio della pubblica amministrazione e del sistema produttivo”.

Quante persone lavorano in ENEA? E che rapporto avete con università e studenti?

“Siamo circa 2200 persone in tutta Italia. Nell’area di Bologna abbiamo due sedi: Bologna, dove si fa progettazione e analisi, e il Brasimone, dove si fa ricerca tecnologica. Il mio team conta circa 40 persone, ma grazie alle collaborazioni diventiamo oltre cento su progetti specifici. Ospitiamo molti studenti, anche stranieri - ultimamente diversi francesi - e lavoriamo con parecchie università italiane: Bologna, Milano, Torino, Padova, Roma, Pisa, Napoli, e altre”.

E sul piano internazionale?

“Siamo un ente pubblico e partecipiamo ai programmi europei: quando in Italia era più difficile fare ricerca nucleare, quei progetti ci hanno sostenuto e hanno creato partnership solide, che oggi ci permettono di continuare a crescere”.

Veniamo al tema “politico-industriale”, anche se non è il suo. Per decarbonizzare davvero il nostro mix energetico, l’Italia può fare a meno del nucleare?

“I numeri e gli esperti concordano sul fatto che il nucleare abbia un ruolo fondamentale nella decarbonizzazione. Se l’Italia debba tornarci, però, non sta a me deciderlo. Dico solo che serve un approccio pragmatico: valutare tutte le tecnologie disponibili e scegliere sulla base di costi e benefici, senza ideologie. Molti Paesi che utilizzano l’energia nucleare hanno costi energetici più bassi rispetto ai nostri: anche questo va considerato”.

Uno sguardo ai vicini: chi ha il nucleare e chi no?

“Austria: contraria, niente nucleare. Svizzera: aveva deciso l’uscita, ma ci si sta riflettendo. Francia: fortemente nucleare. Slovenia: ha impianti e si pensa di aumentare la produzione. Nell’Europa dell’Est - Polonia, Romania, Ungheria - c’è molto interesse. Tra i grandi Paesi, la Germania oggi ha abbandonato la produzione di energia da fonte nucleare ma di recente sta ripensando alcune scelte. Da parte nostra abbiamo investito molto sulle rinnovabili, e dobbiamo continuare a farlo ma importiamo energia e questo ci rende vulnerabili. Se i nostri obiettivi sono la neutralità climatica, insieme a sicurezza, resilienza e autonomia, dobbiamo disporre anche di una base stabile di produzione interna”.

 

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Commenta scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su

Caratteri rimanenti: 400