La sensibilità al glutine è meno diffusa di quanto si pensi. In molti casi, il glutine non è il diretto responsabile dei disturbi, ma un bersaglio facile, complice anche il peso del marketing e delle mode alimentari. Un’ampia ricerca internazionale – con una significativa partecipazione italiana – pubblicata su Lancet mette ordine tra miti e realtà, chiarendo che puntare il dito contro il glutine può, in alcuni casi, peggiorare la gestione dei problemi alimentari.
Per comprendere il fenomeno, è utile distinguere la sensibilità al glutine dalla celiachia. Il glutine è una proteina presente in cereali come grano, orzo, segale e farro. Nella celiachia, il sistema immunitario reagisce in modo anomalo, provocando un’infiammazione che danneggia la mucosa intestinale e causa sintomi anche gravi. La sensibilità al glutine, invece, si manifesta in persone che non sono né celiache né allergiche, ma riferiscono malesseri intestinali o extraintestinali – come gonfiore, dolori, mal di testa e stanchezza – dopo aver consumato alimenti contenenti glutine, trovando sollievo quando li eliminano.
Tuttavia, la letteratura scientifica mostra un quadro più sfumato. “Mancano prove chiare sulla reale esistenza e diffusione della sensibilità al glutine”, spiega Carolina Ciacci, gastroenterologa dell’Università di Salerno e coautrice dello studio. Le auto-diagnosi sono molto più frequenti dei casi confermati: circa una persona su dieci si definisce “sensibile al glutine”, ma solo una minoranza reagisce effettivamente alla sua presenza. Studi in cieco mostrano che i pazienti non distinguono in modo affidabile se i sintomi derivano davvero dal glutine o da altri fattori.
Spesso, i disturbi migliorano con una dieta povera di Fodmap – sostanze fermentabili presenti anche in molti alimenti con glutine – suggerendo che i responsabili potrebbero essere altri composti. A ciò si aggiunge il cosiddetto effetto nocebo, cioè la comparsa dei sintomi dovuta all’aspettativa negativa, indipendentemente dal contenuto del cibo. “Quando il cervello prevede un danno, amplifica ogni sensazione intestinale – sottolinea Jessica Biesiekierski, dell’Università di Melbourne –. I sintomi sono reali, ma spesso guidati dalle aspettative più che dal glutine stesso.”
La componente psicologica non nega l’esistenza del disagio, ma evidenzia il legame tra cervello e intestino. Eliminare il glutine può comunque portare beneficio, sia per l’esclusione involontaria dei Fodmap sia per la sensazione di maggiore controllo sull’alimentazione.
Il dibattito si complica ulteriormente con il ruolo del marketing. Il boom dei prodotti “senza glutine” ha alimentato la convinzione che siano più sani per tutti, spingendo molti a auto-diagnosticarsi una sensibilità e a seguire diete restrittive senza necessità medica. Un errore che può portare a carenze nutrizionali, spese maggiori e un peggioramento della qualità della vita.
Gli esperti invitano alla prudenza. La sensibilità al glutine è una condizione reale per alcuni, ma spesso sovrastimata e confusa. Serve un approccio rigoroso, basato su diagnosi per esclusione, consulenze specialistiche e strategie dietetiche mirate. In molti casi, spiegano i ricercatori, è più efficace ridurre i Fodmap piuttosto che eliminare completamente il glutine.