VOCE
CULTURA
05.12.2025 - 20:00
“Sono nato in quel di Rovigo”. Accoglie così, in tutta la sua schietta e consocia penna di polesano, prima ancora che giornalista, Gian Antonio Cibotto. “Toni” lo conoscevano tutti e forse è anche per questo che nella nuova mostra a lui intitolata, aperta da ieri mattina fino al prossimo 28 giugno a palazzo Roncale, sembra aleggiare la sua presenza.
Saranno i cappotti nell’attaccapanni del suo studio ricreato, o la macchina da scrivere silenziosa, finalmente a riposo dal ticchettio frenetico e dal tintinnio dell’a capo, oppure l’auto di una vita ormai arrivata al capolinea del ricordo. Certo è che sono stati già in tanti quelli che si sono concessi di tornare a salutare l’uomo che raccontò il Nordest, l’Italia, il suo Polesine, la sua, in fondo “dolce città di campagna”.
Si sale quasi di soppiatto all’ultimo piano del palazzo per immergersi nelle sale di un’esposizione che parla direttamente alle corde del cuore, passando fra le pagine ingiallite di una vita. Sono i libri infatti a parlare in quello che è a tutti gli effetti un viaggio fra le coordinate esistenziali di un uomo sempre legato alla sua Rovigo e a guidare l’osservatore è anche la sua voce, il suo modo di parlare, lui in tutto.
Ideata da Sergio Campagnolo e curata da Francesco Jori, entrambi legati a Toni per via di una lunga frequentazione, promossa dalla Fondazione Cariparo con l’Accademia dei Concordi e il Comune capoluogo, l’esposizione fa leva non tanto nel cercare di esaurire in alcuni metri il concentrato di una vita ambivalente, fuori ma dentro la provincia, aperta eppure solitaria, bensì vuole mostrarne la complessità unica che rende Cibotto, a cent’anni dalla nascita, un unicum da ringraziare, specie per i polesani.
Figlio di uno dei vertici della democrazia cristiana cittadina, il “vicevescovo”, come lo chiamavano, crebbe in contesti difficili da risvolti non sempre rosei, in una catalogazione convenzionale e ossequiosamente reverenziale ancora pre-conciliare. Gli costò molto, specie per il suo esordio “La coda del parroco” del 1954, che attirò non poche critiche dall’allora Sant’Uffizio. E poi l’esperienza diretta dell’alluvione, indelebile ricordo che convoglierà nelle “Cronache dell’alluvione”. Una sezione è inoltre interamente dedicata agli anni d’oro del cinema. Tra i voli di una Roma da dolce vita, via Vittorio Veneto viene trasposta nella cinecittà veneta, nel delta del Po per le riprese del suo “Scano Boa”. E tra incursioni di contatti e conoscenze, fra Pasolini, Moravia, Mastroianni e Fellini, da Roma dove era a dirigere la “Fiera letteraria”, torna nel suo territorio, e, da ieri, lo ha fatto ancora una volta.
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