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"Sono incinta": l'azienda la licenzia

Ma il giudice dispone il reintegro

"Capo, sono incinta": stabilizzata a tempo indeterminato

È stato dichiarato nullo il licenziamento di una dipendente di un negozio specializzato in prodotti derivati dalla cannabis nel sestiere di Cannaregio, allontanata dall’azienda subito dopo aver comunicato di essere incinta. La decisione è della giudice del lavoro Margherita Bortolaso, che nelle scorse settimane ha accolto il ricorso presentato dalla lavoratrice, disponendone il reintegro e un’indennità a suo favore.

Secondo quanto ricostruito negli atti, la donna aveva iniziato a lavorare nel luglio 2024 alle dipendenze di una società con sede in provincia di Napoli, attività poi confluita in un secondo soggetto giuridico a seguito della cessione di ramo d’azienda. La dipendente ha spiegato di essere stata impiegata in assenza di un contratto sottoscritto, pur essendo stata “regolarizzata parzialmente” attraverso due rapporti a tempo determinato: il primo dalla fine di luglio alla fine di ottobre 2024, il secondo dall’inizio di gennaio fino al 13 gennaio 2025.

A metà gennaio la dipendente ha comunicato il proprio stato di gravidanza tramite un messaggio WhatsApp corredato da certificato medico. Nello stesso giorno, riferisce nel ricorso, è stata licenziata. La comunicazione è avvenuta in due momenti: prima per via telefonica, poi tramite un documento scritto nel quale il datore di lavoro affermava che la lavoratrice non aveva superato il periodo di prova. Tale documento risultava retrodatato di tre giorni rispetto all’annuncio della gravidanza.

La lavoratrice ha impugnato subito il provvedimento, contestando l’esistenza di un patto di prova, mai sottoscritto, e sostenendo che l’eventuale superamento avrebbe comportato un’assunzione a tempo indeterminato. La giudice ha evidenziato che la forma scritta è requisito essenziale per l’apposizione di un periodo di prova e che, in mancanza, tale clausola non può ritenersi valida.

Accogliendo il ricorso, il tribunale ha dichiarato nullo il licenziamento e la clausola relativa al presunto patto di prova, considerato inesistente. Le due società coinvolte nella gestione del negozio sono state condannate a reintegrare la lavoratrice e a corrisponderle un’indennità ritenuta adeguata.

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