VOCE
Adria
05.03.2024 - 23:07
Il recente incontro svoltosi al Cada con la partecipazione del poeta vernacolare adriese Vanni Sperindio, oltre alle poesie lette e commentate dall’ospite, è stata un’occasione di riflessione sul dialetto. Osserva pertanto Cesare Lorefice, poeta e narratore, oltre che referente culturale del Cada che organizza gli appuntamenti del giovedì: “In questo periodo in cui si parla di tutela della biodiversità, di conservazione e promozione dei beni ambientali e culturali, delle nostre radici storiche, geografiche e politiche, a nessuno è venuto in mente di fare lo stesso discorso con il nostro dialetto. Forse perché non esiste un unico e solo dialetto veneto che accomuni le diverse province e città. Anzi in una stessa città, oltre a cadenza o tonalità, possono cambiare sostantivi, verbi, aggettivi, da un quartiere all’altro la parlata può cambiare molto, pur mantenendo un filo che lo lega e lo accomuna”.
A questo punto Lorefice lancia un appello: “Spetta agli scrittori conservare, tramandare e unificare, come fecero Carlo Goldoni a Venezia ed Eduardo De Filippo in Campania, un patrimonio che altrimenti andrebbe disperso, perché il dialetto è l’anima dei popoli, guai a quel popolo che rinnega la propria anima”.
E ancora: “Uno scrittore è chi scrive con anima e cuore, il dialetto è l’anima dei popoli perché è impresso nel loro Dna, è il loro imprimatur, tanto da assistere adesso a una sua riscoperta e a un suo recupero da parte degli studiosi, che attribuiscono agli scrittori dialettali, sia in prosa che in poesia, il merito di aver ridato dignità al dialetto, un tempo considerato come ‘la lingua dei vinti’ o peggio ‘la lingua dei morti’, quasi a ricordare qualche cosa da esorcizzare come fatica, dolore, malattia, povertà o, appunto, la morte”.
Allora l’autore del romanzo storico “La poetessa e la cortigiana” prosegue rilevando che “in realtà il dialetto esprime una ricchezza di valori insopprimibili, definiti appunto ‘valori di una volta’, di cui adesso si sente la mancanza e si va in cerca: amicizia, altruismo, patria, religiosità, associazionismo, volontariato. Ben vengano allora le poesie di Vanni, e altri come lui, se son capaci di ridarci questi sentimenti: il dialetto è capace di esprimere tutto ciò perché è una lingua vera e propria che ha la sua grammatica, le sue regole, i suoi costrutti sintattici, le sue declinazioni, i suoi verbi e avverbi, le sue strategie, le sue sfumature, tanto da assurgere al ruolo di lingua parlata, viva, quotidiana, attuale anche se antica. Per questo ci caratterizza, ci distingue e si presta bene a raccontare la vita e le sue continue sfumature, ora dolci ora amare, ora tenere, dolorose, gioiose, tristi, comunque varie e variegate”.
A questo punto il pensiero va alla monumentale opera “Vocabolario polesano” in due ponderosi tomi, edito da Neri Pozza e curato da Giovanni Beggio che ha coordinato un comitato scientifico di altissimo livello. Scrive Giovan Battista Pellegrini nella prefazione: “Col dizionario polesano di Beggio possediamo uno strumento sicuro per la conoscenza di un dialetto veneto meridionale nel complesso non ancora molto noto e studiato”.
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