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L'IDEA

"Abbiamo inventato il kit doccia per profughi"

Il Centro documentazione polesano a fianco dei volontari che aiutano i migranti balcanici

"Abbiamo inventato il kit doccia per profughi"

Il Centro documentazione polesano a fianco dei volontari che aiutano i migranti balcanici

Il Cdp, Centro di documentazione polesano, associazione di Badia Polesine, sostiene il Collettivo rotte balcaniche.

“Il Collettivo Rotte balcaniche Alto Vicentino è un gruppo di attivisti e attiviste nato per supportare le persone in movimento lungo le rotte balcaniche e per lottare contro la disumanità dei confini. La nostra esperienza si è sempre basata sull’essere fisicamente nei territori di frontiera (Bihac e Velika Kladusha, in Bosnia, ora anche Subotica e dintorni, in Serbia) e il nostro modo di stare nei luoghi e con le persone vuole essere solidale, attento, ma anche critico della realtà”.

Dopo un messaggio di sostegno lanciato dal Collettivo, il Centro documentazione polesano presieduto da Remo Agnoletto, ha mosso le acque diventando collettore di un gruppo di associazioni tra le quali Amnesty, Emergency e Cri per capire cosa era possibile fare. “Con alcune iniziative - spiega Agnoletto - siamo riusciti a raccogliere 3000 euro che abbiamo inviato per l’acquisto di docce portatili, medicinali e vestiario”.

Del progetto docce parla Floriana, volontaria del gruppo che spiega: “Ci siamo inventati un packaging per uno zaino doccia che ci permette di fare le docce calde dove vogliamo, dove c’è necessità. Strada facendo ci siamo resi conto che l’azione di cura nei confronti delle persone in movimento è qualcosa di ‘scomodo’, spesso vietato, perché di fatto è un atto che ha per obiettivo l’aiutare le persone a passare il confine: se i ragazzi stanno bene, hanno più possibilità di riuscire; se i loro piedi sono sani saranno più veloci; se sono vestiti adeguatamente e con scarpe adatte resisteranno alla durezza del cammino".

"E’ una magra consolazione… è quello che ci resta, il prendersi cura: non siamo proprio così sicuri che sia un atto politico rivoluzionario ma è davvero tutto quello che ci resta e che noi possiamo fare. Non siamo riusciti e probabilmente non riusciremo a far sì che non si attuino o non si ripetano politiche mortifere come quelle attuali. Per questi motivi la risposta è sotterranea, è la cura. Siamo un collettivo intergenerazionale, dai 19 ai 60 anni e siamo ancora in grado di non prenderci troppo sul serio e non assumere toni salvifici".

"La scelta di essere sui confini nasce dal bisogno, in qualche modo, di chiedere scusa alle persone in movimento e di essere solidali con il loro desiderio di trovare una vita degna: ci sentiamo, volenti o nolenti, parte di un occidente che ha deliberatamente creato le disuguaglianze, le guerre, lo sfruttamento sistematico delle risorse, la distruzione ambientale come metodo per garantire il proprio livello di vita; un occidente che svolge una politica estera che niente ha a che fare con la convivenza pacifica tra i popoli. Stare con le persone in movimento, portare loro abbigliamento, scarpe, materiale igienico, sistemare - insieme a loro che ci vivono - uno squat oppure portare la possibilità di avere delle docce e prendersi cura della loro salute vuol dire anche questo”.

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