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CRONACA

I tiratori pagati di Sarajevo

L’inchiesta che riapre il lato oscuro dell’assedio

I tiratori pagati di Sarajevo

Sarajevo, primavera 1992. La città è già stretta nell’assedio destinato a durare quasi quattro anni. Sulle colline intorno, i cecchini serbo-bosniaci aprono il fuoco su chiunque attraversi le strade, trasformando il viale principale della capitale in quella che verrà ricordata come Sniper Alley. È in questo scenario che, oggi, riemerge una verità ancora più disturbante: l’esistenza di occidentali che avrebbero pagato per sparare sui civili.

Dopo trent’anni, la procura di Milano ha aperto un’inchiesta sul presunto “turismo di guerra” a Sarajevo tra il 1992 e il 1996. A far riemergere il caso è lo scrittore Ezio Gavazzeni, che ha consegnato alla magistratura un dossier costruito in anni di ricerche e corroborato dal documentario Sarajevo Safari del regista sloveno Miran Zupanič. L’ipotesi di reato è pesantissima: strage aggravata da futili motivi.

Gavazzeni racconta di essersi imbattuto in questa storia già negli anni Novanta, quando alcuni articoli su quotidiani italiani parlarono di misteriosi “cecchini del weekend”. Poi, il silenzio. La visione del documentario nel 2022 lo ha spinto a ricominciare: ha raccolto testimonianze, incrociato fonti e, insieme alla criminologa Martina Radice, tracciato il profilo dei presunti partecipanti. Il dossier è ora nelle mani del PM Alessandro Gobbis, che ha affidato l’indagine ai Ros dei Carabinieri.

Secondo le ricostruzioni, questi “clienti” erano uomini d’affari o professionisti benestanti, appassionati di armi e caccia. Per due o tre giorni sulle postazioni serbo-bosniache avrebbero speso cifre paragonabili al costo attuale di un trilocale a Milano. Provenivano soprattutto dal Nord Italia, spesso passando da Trieste, e la loro presenza richiedeva necessariamente l’appoggio delle milizie che controllavano le colline.

L’elemento più inquietante non è solo l’organizzazione logistica, ma la motivazione. Gavazzeni parla di persone attratte dall’idea di un potere totale, di un’emozione “senza conseguenze”. Non odio politico, non ideologia: “non era guerra, era una caccia all’uomo senza motivo”. Molti di questi uomini oggi avrebbero tra i 65 e gli 83 anni, e ritenevano probabilmente che il reato fosse ormai prescritto. Non lo è.

A Sarajevo questa storia non sorprende. La città, che ha contato oltre 11.000 civili uccisi, ha sempre percepito la presenza di tiratori non militari tra i nidi sulle colline. Per anni le testimonianze sono state liquidate come leggende metropolitane, ma l’apertura formale dell’inchiesta ha riacceso una ferita che non si è mai rimarginata. In un luogo in cui ogni famiglia ha perso qualcuno, l’idea che alcuni colpi siano stati esplosi da “turisti” è uno shock che pesa ancora di più.

La vicenda ha raggiunto l’attenzione internazionale e ha mobilitato anche la politica italiana: la deputata Stefana Ascari (M5S) ha presentato un’interrogazione parlamentare per chiedere chiarimenti sul coinvolgimento di eventuali connazionali. Al momento non ci sono nomi né indagati formali, ma la procura valuta la credibilità del materiale raccolto e la possibilità di risalire ai responsabili.

Per Gavazzeni, la denuncia non è soltanto un atto giudiziario. È un gesto morale: “Ridare voce a chi è stato zittito per trent’anni”. Stabilire da quale arma sia partito un colpo sarà quasi impossibile, ma individuare anche uno o due responsabili significherebbe, dice lo scrittore, rompere definitivamente il tabù e affermare che la verità non può essere archiviata.

Tra le colline oggi tornate luoghi di passeggiate e silenzi, Sarajevo continua a ricordare. E questa inchiesta costringe l’Europa a interrogarsi ancora una volta sul rapporto tra guerra, denaro e spettacolarizzazione del male.

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