VOCE
CRONACA
16.12.2025 - 18:30
Dimenticate contanti, carte di credito e pagamenti digitali: nel futuro che sta prendendo forma la vera moneta di scambio non è più il denaro, ma i dati personali. Dopo anni in cui il modello è stato appannaggio delle Big Tech, lo scambio di servizi in cambio di informazioni sensibili sta uscendo dal mondo virtuale ed entrando nella vita quotidiana, dagli alberghi ai sistemi pensionistici. È la nuova frontiera della data economy, e riguarda tutti.
Per anni il patto implicito è stato chiaro: usa social network, piattaforme di streaming, e-commerce e app gratuite, e in cambio cedi i tuoi dati. Meta, Google, Amazon, Apple e Netflix hanno costruito imperi su questo meccanismo, raccogliendo informazioni in modo spesso passivo e inconsapevole, per alimentare algoritmi sempre più precisi. Oggi, grazie a intelligenza artificiale e machine learning, trasformare enormi quantità di dati in valore economico è più facile, veloce e conveniente che mai.
Se i dati sono il nuovo petrolio, il motivo è semplice: tutti ne produciamo continuamente, mentre il denaro è una risorsa scarsa per miliardi di persone. È per questo che lo scambio dati-servizi sta iniziando a sostituire quello classico basato sui soldi, non solo online ma anche nel mondo reale.
Un esempio emblematico arriva dal Giappone. A Tokyo, davanti alla stazione di Shinagawa, è nato lo Sleep Lab Hotel, un capsule hotel dal prezzo sorprendentemente basso: circa 44 euro a notte. Il motivo? Una parte del conto si paga con il proprio corpo. Durante il sonno, con il consenso degli ospiti, vengono raccolti dati estremamente sensibili: cicli del sonno, battito cardiaco, apnee, movimenti, russamento. Telecamere a infrarossi, microfoni e sensori nelle lenzuola trasformano la notte in una miniera di dati sanitari, poi archiviati e rivenduti dall’azienda che gestisce il progetto. In cambio, gli ospiti ricevono un report personalizzato sul proprio sonno e la promessa dell’anonimato.
Ma il modello non si ferma agli hotel. In Europa si stanno valutando ipotesi ancora più dirompenti. Un importante fondo pensione starebbe studiando la possibilità di colmare i buchi contributivi cedendo dati personali invece di denaro. L’idea è rivolta a chi, per carriere discontinue o precarietà, rischia una pensione insufficiente: ripianare la differenza con i propri dati. Quali dati, in che quantità e con quale valore è ancora oggetto di studio, ma la direzione è chiara. A rivelarlo è stato il filosofo Maurizio Ferraris durante un dibattito al Circolo dei Lettori di Torino, osservando con ironia che mentre altrove si sperimenta, l’Europa resta paralizzata dall’ossessione per il consenso alla privacy.
La domanda centrale diventa allora inevitabile: chi ci guadagna davvero in questo scambio? E soprattutto, a quali condizioni? Le risposte non sono univoche e dipendono dalla consapevolezza di chi cede i dati. Proprio su questo punto insiste l’economista Loretta Napoleoni, che invita a smettere di subire il sistema e a riprendersi il controllo delle proprie informazioni. Se i dati generano ricchezza, sostiene, è meglio decidere consapevolmente quali vendere, a chi e a quale prezzo, piuttosto che regalarli senza saperlo.
Il tema diventa inevitabilmente politico. La gestione dei dati riguarda potere, risorse pubbliche e scelte strategiche. Napoleoni lancia una provocazione: perché l’Unione europea investe centinaia di miliardi nel riarmo e non in una grande infrastruttura pubblica dei dati, come una blockchain sanitaria europea che raccolga tutte le informazioni dei cittadini dalla nascita alla morte, lasciando a ciascuno la piena proprietà e amministrazione del proprio patrimonio digitale?
Sono domande che guardano al futuro, ma un futuro già iniziato. Perché il conto, sempre più spesso, non lo paghi con i soldi: lo paghi con te stesso.
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