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CRONACA

Un microchip per tornare a vedere

La nuova frontiera contro la degenerazione maculare

Un microchip per tornare a vedere

Un microchip impiantato sotto la retina, collegato a occhiali ad alta tecnologia, potrebbe aiutare alcune persone a recuperare parte della vista centrale persa a causa della degenerazione maculare legata all’età. È quanto emerge da uno studio clinico internazionale pubblicato sul New England Journal of Medicine, che per la prima volta documenta un miglioramento misurabile della visione in pazienti per i quali, fino ad oggi, non esistevano terapie in grado di restituire la funzione visiva.

La perdita irreversibile della vista rappresenta una delle conseguenze più diffuse e meno raccontate dell’invecchiamento. A livello globale, oltre 5 milioni di persone convivono con forme avanzate di degenerazione maculare, la principale causa di cecità negli over 60. La malattia colpisce la macula, la porzione centrale della retina responsabile della visione fine e dettagliata: leggere, riconoscere i volti, distinguere lettere e numeri diventano attività progressivamente impossibili, mentre la visione periferica resta in gran parte intatta. Finora, le terapie disponibili hanno potuto solo rallentare la progressione o aiutare i pazienti ad adattarsi, senza recuperare la vista perduta.

In questo scenario si inseriscono i risultati del nuovo studio, che suggeriscono un possibile cambio di paradigma. Una protesi oculare sperimentale ha consentito a oltre l’80% dei pazienti con degenerazione maculare atrofica di ottenere un miglioramento clinicamente significativo dell’acuità visiva. Non si tratta della semplice percezione della luce: in alcuni casi i partecipanti sono riusciti a riconoscere lettere, numeri e parole già a un anno dall’intervento.

La sperimentazione ha coinvolto 38 pazienti affetti da atrofia geografica, la forma più avanzata e irreversibile della malattia, caratterizzata dalla scomparsa dei fotorecettori, le cellule che trasformano la luce in segnali diretti al cervello. I ricercatori hanno seguito i partecipanti nel tempo, confrontando la loro capacità visiva prima e dopo l’impianto. Tutti presentavano una compromissione molto severa, con valori di acuità visiva estremamente ridotti secondo i parametri oftalmologici standard.

Le valutazioni, effettuate a sei e dodici mesi, miravano a dimostrare un recupero di almeno 0,2 logMAR, una soglia considerata sufficiente a produrre un beneficio concreto nella vita quotidiana. Dopo dodici mesi, 32 pazienti avevano completato il follow-up: 26 di loro hanno mostrato un miglioramento misurabile e clinicamente rilevante. In termini pratici, questo significa distinguere più lettere nei test e recuperare funzioni visive centrali fondamentali.

Un aspetto rilevante è che il miglioramento non è avvenuto a discapito della vista residua. La visione periferica, essenziale per orientarsi nello spazio, è rimasta sostanzialmente invariata. Gli effetti del trattamento si sono concentrati proprio sulla visione centrale, la più compromessa dalla malattia e la più importante per attività come la lettura.

Anche la sicurezza è stata monitorata attentamente. Nel corso dello studio sono stati registrati 26 eventi avversi gravi in 19 pazienti, per lo più complicanze oculari già note in questo tipo di chirurgia: aumenti temporanei della pressione oculare, piccoli distacchi della retina, alterazioni maculari o sanguinamenti subretinici. “La maggioranza di questi eventi si è verificata nei primi due mesi dopo l’impianto e nel 95% dei casi si è risolta spontaneamente o con un trattamento medico, senza conseguenze permanenti sulla visione”, spiegano i ricercatori.

Al centro dello studio c’è il sistema PRIMA, una tecnologia progettata per aggirare il danno causato dalla degenerazione maculare atrofica. Anche quando i fotorecettori della macula sono ormai persi, alcune cellule nervose più profonde della retina restano funzionanti e possono ancora trasmettere segnali al cervello. È su questo principio che si basa la protesi.

Durante l’intervento chirurgico, i medici inseriscono un microchip sottilissimo di pochi millimetri sotto la retina, nella zona in cui la visione centrale è andata perduta. L’impianto non ha batterie né cavi e rimane passivo finché non riceve uno stimolo luminoso specifico. Dopo l’operazione, il paziente indossa occhiali speciali dotati di una microcamera che riprende continuamente ciò che si trova davanti agli occhi.

Le immagini vengono elaborate in tempo reale da un piccolo computer: vengono semplificate, ingrandite e rese più contrastate. Il segnale visivo viene poi trasformato in luce nel vicino infrarosso e proiettato direttamente sulla retina. Il microchip utilizza l’energia luminosa per attivarsi e convertirla in impulsi elettrici, che stimolano le cellule nervose residue. Queste, a loro volta, inviano l’informazione al cervello lungo le vie visive naturali, senza fili e senza bypassare il sistema visivo esistente.

Il risultato non è una visione naturale, ma una visione centrale artificiale che si integra con quella periferica rimasta intatta. È proprio questa integrazione a rendere possibile il recupero di funzioni come la lettura di lettere e parole, senza compromettere l’orientamento nello spazio. La tecnologia non guarisce la degenerazione maculare, ma tenta di ricostruire un canale visivo dove la malattia aveva lasciato un vuoto.

Il problema della perdita della vista legata all’età è destinato a crescere anche in Italia. Si stima che circa un milione di persone conviva con una forma di degenerazione maculare e che oltre 200 mila abbiano già sviluppato una compromissione avanzata. Oggi l’AMD rappresenta la prima causa di ipovisione grave dopo i 65 anni. Mentre per la forma “umida” esistono terapie in grado di rallentare la malattia, per la forma atrofica le opzioni restano limitate alla gestione delle conseguenze. In questo contesto, la protesi subretinica apre una strada nuova: non una cura definitiva, ma una possibilità concreta di recupero funzionale laddove, fino a poco tempo fa, non ce n’erano.

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